Lee Myungmi Landscape

CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA PITTURA COREANA

DI Eunmi Lee – Lorànd Hegyi

Per quasi vent’anni, l’attenzione generale verso l’arte pittorica coreana contemporanea è stata sostanzialmente catalizzata da un unico elemento, il cosiddetto Movimento Dansaekhwa o Pittura Monocromatica Coreana. Sebbene, agli inizi degli anni ’70, i critici d’arte occidentali fossero stati ragionevolmente portati ad accostare con una certa naturalezza la Pittura Monocromatica Coreana a certe tendenze Moderniste o, più precisamente, Post-Moderniste – prima fra tutte, quel tipo di Astrattismo Americano ispirato e teorizzato da Clement Greenberg – nonché al Minimalismo, la critica d’arte coreana e giapponese rilevò la valenza fortemente meditativa dell’atto di confrontarsi con il colore, o “non-colore” – bianco, quale forma di riflessione sull’universo. Gli artisti di Dansaekhwa non erano particolarmente interessati ad esplorare le possibilità espressive offerte dalla gamma cromatica, né la capacità del colore di suggerire spazi e aree metaforiche; non li interessava, del colore, l’intensa carica evocativa, capace di farsi portavoce di drammatiche narrazioni, così come sfruttare il suo potere strutturale per creare sistemi e costruzioni rigorose, basate su ipotetiche entità visive oggettive. Per gli artisti di Dansaekhwa l’atto del dipingere, la ripetitività del gesto ben si prestava a divenire funzione di un complesso processo meditativo incentrato sull’interrogarsi sul rapporto tra i diversi elementi dell’universo. L’assenza di colore, o comunque l’uso di mezzetinte e la prevalenza di tutto un sofisticato repertorio di sfumature di bianco, sottolineano una certa indifferenza rispetto alla definizione precisa di temi e dettagli, e la centralità del carattere meditativo del processo pittorico ne risulta, invece, rafforzata. Il critico d’arte Lee Yil legge questo approccio sostanzialmente non-coloristico al colore come una forma di ricognizione dell’universo, una contemplazione del cosmo che al contempo lo evoca [1] . Il carattere ripetitivo del gesto del dipingere e l’aspetto prettamente performativo del creare la superficie pittorica, di fatto sono profondamente implicati nell’intero processo intellettuale e meditativo rivolto ad una dimensione universale, che esclude il personale o l’aneddotico.  

Artisti come Lee Ufan, Park Seo-Bo, Kim Guiline, Yun Hyong Keun, Chung Sang-Hwa, Ha Chong-Hyun e Chung Chang-Sup sono i principali fautori di Dansaekhwa, la cui eredità sulla pittura coreana venne messa anche in discussione dalla successiva generazione di pittori, che videro un limite nella visione universalistica e nella ricerca di una purezza monolitica del linguaggio visivo, di conseguenza epurato dalla presenza di tutti i riferimenti a vissuti antropologici e socioculturali reali e da qualunque narrazione personale.

La nuova generazione di pittori coreani emersa tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 trova un suo primario esponente nella figura pionieristica di Lee Kang So. Sebbene, agli albori della sua carriera, si sia dedicato principalmente a performance ed eventi tesi rispondere alla questione fondamentale del ruolo dell’artista nell’orientare i processi creativi e alla sua competenza nello svelare modelli sistematici di elementi di attività consapevolmente pericolose, in seguito è stato il medium pittorico a recepire gli stessi quesiti. L’interrogare le delicate relazioni tra contesti dati (sociali, mentali o culturali che siano) e la loro potenziale reinterpretazione, trasformazione, ri-organizzazione umana, ri-orientazione e ri-funzionalizzazione, ha avuto come naturale conseguenza l’apertura della sua riflessione estetica ad aree più metaforiche, campi più connotativi, nei quali memorie, commenti personali e considerazioni sono in grado di mettere insieme un poetico ed evocativo regno della narrazione.

L’interpretazione della pittura di Lee Kang So trova una sua complessità nel coesistere di due opposte istanze: da un lato, un’applicazione della pennellata gioiosa e delicata, insieme a una sensazione pittorica dalla valenza sottile, elegante, in qualche modo malinconica; dall’altra la calma, l’equilibrio, la mediazione intellettuale, la costruzione accurata del fondamento strutturale e l’osservazione analitica dell’autodeterminazione pittorica. L’intensità sensuale dell’apparenza materica della superficie dipinta, la bizzarra, enigmatica fluidità delle formazioni, il volutamente indefinito e ambivalente status semantico dei diversi elementi pittorici aprono ampi e liberi campi di immaginazione radicalmente liberata di differenti possibili narrazioni.

L’opera di Lee Kang So offre una rara, provocatoria bellezza, una trama pittorica smisuratamente intensa, una ricchezza di sensazioni materiali, ma allo stesso tempo anche una rigorosa indagine intellettuale in merito alle competenze fondamentali della pittura contemporanea. In altre parole, potremmo dire che la sua pittura è frutto di considerazioni estetiche riguardo alla capacità di elaborare metafore visive vivide, efficaci, suggestive di costellazioni spazio-tempo-movimento, che incarnano realtà umane fondamentali e orientamenti mentali. Quello che non offre, è l’illusione, l’imitazione degli elementi di realtà che esistono al di fuori della realtà del quadro. Ma essa evoca narrazioni metaforiche, che incarnano le questioni essenziali, fondamentali dell’orientamento dell’uomo nell’universo. In questo senso, secondo Kim Airyung, Lee Kang So “si accosta al regno in cui ha origine la pittura, e dove nascono verità e illusioni. Le sue opere non solo sovvertono i cliché del genere paesaggistico, ma sono in definitiva delle semplici pitture, pulite e corroboranti. In questa nuova serie di dipinti, Lee lascia emergere la condizione stessa della pittura, che è la contemplazione di percezione e coscienza, dell’immaginazione e della materia” [2]. Questo ci fa ipotizzare che lo scopo dell’artista sia proprio la percezione immediata, gioiosa, spontanea, sensuale del sottile fenomeno pittorico. Questi “semplici dipinti, puliti e corroboranti” offrono infatti una splendida, evocativa, emozionante sensazione pittorica. Ci si chiede allora quale sia il contesto in cui il ricevente interiorizza questa sensazione; in quale contesto spirituale e mentale si concretizza questa voluttuosa esperienza sensuale?

Allo stesso tempo, l’osservatore assiste alla sistematizzazione rigorosa e coerente di tutti gli elementi e le tecniche pittoriche, dai “motivi”, a considerazioni compositive e strutturali; dalle capacità figurative, mimetiche, connotative o simboliche agli immaginari evocativi e misteriosi; dalle tendenze analitiche immanenti alle esperienze emotive empatiche, espansive, spontanee, in cui la radicale semplicità formale non costituisce un limite alle associazioni e ai riferimenti letterari.

Ed è esattamente questa complessità, questa “strategia parallela” a costituire probabilmente la riflessione centrale della visione estetica di Lee Kang So: egli sottolinea la concretezza del singolo fenomeno plastico-visivo, conferisce un potere decisivo alla realtà pittorica, ma questa realtà pittorica esiste in quanto materializzazione di considerazioni intelligibili; essa evoca prospettive metaforiche. Non si tratta assolutamente di un sistema visivo autoreferenziale e tautologico, ma di una realtà pittorica vivida, violenta e suggestiva, che evoca poeticamente il trasferimento ad un piano di significato metaforico. La radicale concretezza della superficie pittorica attiva il nostro immaginario, il quale crea possibili connessioni con contesti referenziali, con diverse percezioni della realtà.

Lee Kang So suggerisce anche all’osservatore diverse concretizzazioni semantiche per i suoi motivi. L’utilizzo di una molteplicità di metodi di lavoro diversi non mette in discussione la coerenza della sua visione; al contrario, relativizza la predominanza di un solo metodo, o di una sola lettura del tessuto artistico. Come Philipps Dagen ha espresso con grande precisione: “Giustapponendo metodi distinti in singoli dipinti e interpretando diversi stili in modo imprevedibile, Lee Kang-So può benissimo essere un artista postmoderno che dipinge da una certa distanza e che gode di un tale metodo di pittura. Questi pittori comprendono appieno il processo di creazione pittorica al punto che il processo stesso diviene il loro vero soggetto: in altre parole, sono pittori post-concettualisti” [3]

Le opere di Lee Myungmi lanciano un’altra sfida alla grande tradizione del monolitico sistema visivo di Dansaekhwa. Mentre l’osservatore è invitato a godere del ricco, complesso, fresco, sensuale, e in qualche modo umoristico e decorativo valore artistico dell’universo pittorico di Lee Myungmi, allo stesso tempo la pittrice offre una chiara indicazione della propria intenzione di rivalutare e ri-formare i riferimenti semantici del dipinto.

Il suo metodo pittorico, che consiste nell’accostare differenti linguaggi visivi e schemi compositivi, diverse convenzioni relative alla fabbricazione di segni, segnali e immagini iconiche, riesce, attraverso i suoi effetti sovversivi e liberatori, a dissolvere qualsiasi sistema pittorico omogeneo e ad aprire la pittura ad un eclettismo sovrano e dinamico. Sovranità significa che la pittura di Lee Myungmi sembra ignorare – o almeno non prendere sul serio – una delle ossessioni del Modernismo a lungo sopravvissuta, e per lungo tempo quasi religiosamente assolutizzata: quella della de-materializzazione dell’opera d’arte, l’ossessione per il presunto antagonismo tra la rilevanza intellettuale, concettuale, spirituale dell’arte, e la sua entità sensuale, materiale – e, di conseguenza, transitoria, effimera, fugace -. Lee Myungmi, con atto di sovranità, si è liberata di questo tabù e celebra la gioiosa sensualità delle manifestazioni artistiche, l’immediatezza unica e concreta della singolarità dell’immagine e apre strade libere verso l’irresistibile vitalità della concretezza, verso la ricchezza decorativa, coloristica, del mondo dipinto.

Ella addirittura esaspera l’essenza del fenomeno visivo concreto e primario, già potente, attraente e sensuale, come a cercare un ritorno ai giorni trionfali della celebrazione della radicalità coloristica e dell’euforia dei Fauvisti del Primo Modernismo, o all’ammirazione estatica della natura e alla sensazione di vita del primo Espressionismo. Ma, in fondo, c’è qualcosa che disturba profondamente questo innocente tripudio di colori: elementi insoliti, corpi alieni, segni inadeguati e segnali estranei, frammenti irritanti di oggetti, cose inspiegabili che evocano altri sistemi e altre aree connotative, ben lungi dall’ingenua conformità dell’Espressionismo panteista. La loro presenza distrugge l’impero – apparentemente scevro di problematiche, naturale, fresco e puro – dell’euforia dei sensi; hanno qualcosa di sporco e banale, sono privi di qualsiasi altezza celebrativa e pomposità, piuttosto sono umoristici o grotteschi. Essi ci fanno chiedere quale sia il modo corretto di leggere l’organismo visivo della pittura. Anche se la pittura di Lee Myungmi sembra privilegiare la gamma di colori, e celebrare la supremazia della pura, innocente sensualità, ci rendiamo presto conto che si tratta solo di apparenza ed essa è tutto fuorché pura, innocente, ingenua o omogenea: al contrario, essa offre – in modo molto sottile – complessi contesti referenziali, un’apertura allusiva e una struttura interpretativa stratificata. Attraverso ciò, la sua pittura è prova tangibile della possibile coesistenza simultanea di diversi modelli di percezione.

Questo carattere accumulativo, questa capacità di assorbimento della pittura di Lee Myungmi apre il suo vocabolario verso soggetti della vita quotidiana, banali, primitivi, non gerarchici, non artistici, verso moventi “sporchi”, non artistici, e segnali di una cultura eclettica che detta legge; verso l’improvvisazione involontaria, verso l’infantilismo, il gioco d’azzardo, il gioco e lo scherzo, rivelando così la molteplicità delle diverse letture pertinenti e dimostrando il processo multistrato della ricezione. Tutto ciò evoca i livelli più profondi e nascosti della conseguente messa in discussione del fondamento della realtà pittorica monolitica elaborata e costruita coscientemente.

Yoo Geun-Taek indaga sulla questione della ridefinizione delle narrazioni visive fin dagli anni ’90, anni in cui ha realizzato opere ampie e oscure basate sulla ripetizione di elementi semplici. Calmi, monotoni, e in un certo senso oggettivamente epici, questi dipinti danno rappresentazione ad orientamenti umani fondamentali ed esperienze esistenziali; metafore visive specifiche, poeticamente potenti e arcaiche, come fiumi, foreste o città, mettono a nudo la sensazione di temporalità, transitorietà e impotenza di fronte alla storia o al destino. Yoo Geun-Taek considera i dipinti come il particolare regno in cui le realtà intelligibili si fanno sensuali, come un terreno – percepibile visivamente – in cui esperienze che sono spirituali, emotive e immaginarie possono incarnarsi. Egli non si propone di raffigurare cose tangibili e materiali, o oggetti familiari, banali e ordinari – anche se tale materia tangibile appare nei suoi dipinti attraverso la trasformazione pittorica – ma intende invece trasmettere la sua complessa percezione del mondo, fondata sulla combinazione di personali e dirette esperienze di vita e azioni pragmatiche, e di considerazioni intellettuali e costrutti mentali e meditativi coinvolti nell’interiorizzazione dell’universo.

In questo racconto complesso, ma intelligibile, la percezione del tempo come interiorizzazione della cronologia degli eventi assume il ruolo cruciale di connettore tra campi della realtà e forme di esperienza, attraverso una consapevolezza tangibile del tempo, un’esperienza autentica e precisa della temporalità. La natura dell’universo consiste in un’incessante e inesorabile successione di eventi, generale ma allo stesso tempo particolare, che si manifesta in infinte, varie e singolari forme; è fondamentale, inevitabile e universale, eppure sempre e necessariamente conoscibile attraverso la particolarità di elementi singolari. I dipinti di Yoo Geun-Taek sono pieni di queste specificità infinitamente varie, tutte animate dall’esperienza di interiorizzazione della temporalità dell’esistenza.

Il suo universo visivo è estremamente coerente, come è coerente la narrazione reificata in quell’universo visivo. Egli non propone storie perfette in senso classico – storie che hanno un inizio, uno scopo e una conclusione, o che illustrano un percorso interiore e una risoluzione – proprio perché non è necessariamente interessato a vicende individuali, particolari; esplora invece la costante, generale progressione degli eventi e il loro materiale e inesorabile corso. Nelle realtà visive che crea, non racconta aneddoti sul tempo, ma cerca di trasmettere l’esperienza della temporalità onnicomprensiva in tutta la sua inarrestabile, decisamente oggettiva e quasi vegetativa, costante capacità di generazione. Questa capacità generativa della cronologia degli eventi è fonte di narrazioni sempre nuove che emergono quasi come processi incontrollabili nelle realtà fittizie e immaginarie dei suoi dipinti.

A tal fine, Yoo Geun-Taek dà vita un sistema di pittura complesso e stratificato, in cui realtà terrene, intelligibili e immateriali ridefiniscono lo spazio irreale e immaginario del dipinto – materialmente plasmato, visivamente proteso in maniera scultorea sulla sua superficie – e danno forma a quel fluire costante e inevitabile degli eventi, a quel moto perpetuo che risiede nella materialità statica e compatta del dipinto. La struttura materica e sensuale del dipinto, solida e densamente riempita, implica evocazioni di immateriale, intelligibile, immaginaria temporalità, oppure movimento, mobilità, flessibilità; lo spazio solido e stabile del quadro dinamizzato e permeato di fluidità. Come nota Sung Wankyung, “…ciò che è affascinante del suo lavoro è la sua capacità di rivelare il tempo e il movimento. Il suo lavoro ha corpo ed energia. Ciò che rende la sua pittura così accattivante è il dialogo tra il corpo e i soggetti, il fatto siano uniti da una relazione di ripetuto movimento, esemplificata dalla velocità che riflette il corpo, da una pendenza e una scivolata, l’energia o il respiro e l’atteggiamento del corpo che affronta il soggetto”. [4]

La realtà materiale, tangibile dei suoi dipinti convoglia l’esperienza reale e intelligibile della temporalità fluida, che soffonde la manifestazione visiva per evocare quell’impressione di temporalità, transitorietà e fluidità, della costante trasformazione di tutte le formazioni. Sebbene la fluidità, la transitorietà, l’instabilità e la mutevolezza fungano da agenti di destabilizzazione e disorientamento, l’opera pittorica di Yoo Geun-Taek non è affatto votata al fatalismo passivo o alla negatività. Al contrario, narrazioni precise si dispiegano nelle realtà visive fittizie e immaginarie dei suoi dipinti, che delineano nuove connessioni mentali ed emotive tra ogni condizione attuale e la concezione di potenziali sviluppi.

Tra questi continui rimandi all’inesorabilità del succedersi costante degli eventi, o al costante – e necessario, persino inevitabile – cambiamento, esiste anche lo spazio per il potenziale sviluppo di realtà sempre nuove, di narrazioni sempre nuove che rivelano alternative impreviste, rinnovamenti e prospettive inaspettate. Questa è la fonte di potenziali nuove narrazioni, di nuovi regni poetici e immaginari, su cui Yoo Geun-Taek ha posto accenti sempre più forti all’interno del suo universo visivo. Negli ultimi anni, la comparsa di queste nuove narrazioni è stata posta da Yoo Geun-Taek al centro della propria creazione artistica.

Dietro il mondo apparentemente statico del dipinto, calmo e tranquillo, monotono e immobile, in cui sembra non accadere nulla, il tempo – onnipotente, che tutto plasma e tutto cambia – continua la sua irresistibile corsa, quieto ma non per questo meno tenace; tutto ciò che ci riguarda è segnato dall’inevitabilità e l’inesorabilità del passaggio del tempo, dalla limitazione temporale della nostra presenza, e dalla nostra inevitabile partecipazione a questo processo concreto e inarrestabile. Questa drammaticità, però, è resa in maniera sottile, celata dietro l’apparente calma piatta del mondo denso e ripetitivamente strutturato del dipinto, il quale invece suggerisce una sorta di oggettività materiale, una stabilità statica, una materialità calma, costante, persino arcaica. Ma è il nostro inevitabile coinvolgimento, il nostro compulsivo impegno di esseri umani, il nostro essere in balia del tempo, che riempie di empatia, inquietudine, dubbio e malinconia questa materialità apparentemente indifferente.

Park Kyung-A, nata nel 1974, rappresenta una nuova generazione di artisti coreani proiettata verso l’estero, abituata a frequenti viaggi e visite sistematiche ai centri d’arte contemporanea di tutto il mondo. In questa compagine si inseriscono alcuni artisti che all’estero hanno anche intrapreso il proprio percorso di formazione, inserendosi poi a pieno titolo nelle comunità artistiche di altri Paesi. I loro lavori spesso integrano alla perfezione le tradizioni artistiche, i concetti, le visioni estetiche del Paese d’origine e quelle della nazione di accoglienza. Park Kyung-A fonde, nella sua pittura, significative reminiscenze dell’estetica del Romanticismo tedesco con un immaginario metaforico profondamente coreano. Nella sua interpretazione, il motivo della foresta è terreno di incertezza, ma anche di sostanzialità, dove rilevanze esistenziali si palesano e le riflessioni sul destino si incarnano in forme pittoriche altamente sofisticate. Dieci anni passati in Germania e gli studi compiuti presso l’Accademia di Belle Arti di Münster, fanno sì che la sua metodologia pittorica accolga alcune delle lezioni della pittura e del dibattito estetico tedesco. La sua opera evoca la profondità, l’oscurità e la complessità dello spazio virtuale immaginario. Durante l’ultimo decennio, si è dedicata ad una serie di dipinti semi-astratti dal carattere in certo qual modo mimetico che raffigurano motivi paesaggistici, suscitando ricordi di foreste oscure con campi in cui lo spazio di potenziali accadimenti si apre tra ombre di grandi alberi e luci giocosamente raffigurate.

Questi spazi virtuali sottolineano il significato metaforico della profondità e suggeriscono luoghi misteriosi suscettibili di divenire teatro di certi tipi di eventi immaginari. Più tardi, durante gli ultimi anni, Park Kyung-A ha sviluppato un sofisticato vocabolario visivo atto ad esprimere la sua visione profondamente poetica e polisemantica di acute narrazioni prese in prestito dalla grande tradizione romantica e da altre fonti letterarie. Nei suoi dipinti più recenti, sembra aver sacrificato il carattere mimetico delle forme in favore di una rafforzata intensità emotiva. La profondità virtuale dello spazio pittorico assume spesso un’atmosfera cupa, che veicola manifestazioni drammaturgiche e teatrali. Questo dinamismo interiore sostiene il potere di un’immaginazione liberata che si apre verso grandi e antiche narrazioni metaforiche come la foresta, incarnazione dell’oscurità, visione del luogo misterioso dove il destino umano sarà deciso.

Sembra paradossale ma non lo è, che mentre la pittura di Park Kyung-A perde la concretezza delle forme e tende verso un’organizzazione più spontanea dei blocchi di colore e forme in parte gestuali, quasi non mimetiche, le narrazioni metaforiche assumono invece sempre più un carattere quasi letterale, che trasmettono connotazioni complesse profondamente radicate in antiche narrazioni mitologiche e letterarie. Uno dei suoi titoli ricorrenti, “Walk” dovrebbe essere inteso come “camminare nella foresta” dove la profondità carica di mistero e l’enigmatica oscurità evocano avvenimenti occulti che guidano la nostra vita e determinano il nostro destino. Nell’universo pittorico di Park Kyung-A si evidenzia la svolta verso una nuova narratività metaforica e sensibilità poetica, verso la libera re-interpretazione di vecchi racconti, verso un approccio empatico alla natura e all’esperienza umana.

Yi Joungmin, nata nel 1971, è un’altra figura rappresentativa della nuova generazione di artisti coreani, che ha ottenuto il consenso dell’ambiente culturale contemporaneo dell’Estremo Oriente in maniera sorprendentemente rapida. L’opera di Yi Jongmin si basa sulla coerente e continuativa messa in discussione delle realtà socioculturali e antropologiche, a partire dall’immediata concretezza della società coreana attuale, e dai fenomeni materiali e immateriali, intelligibili, culturali, mentali rilevabili. Il devoto impegno di Yi Joungmin per l’osservazione critica e l’analisi delle strutture e delle gerarchie che informano la vita quotidiana, il volersi mettere al servizio dell’esplorazione dei processi di scoperta, comprensione e trasformazione di certi fenomeni socioculturali, hanno fondatamente orientato le sue personali esperienze artistiche verso la ricerca di linguaggi più adeguati, nuovi, e verso l’elaborazione di prospettive socioculturali alternative. Yi Joungmin utilizza una vasta gamma di supporti espressivi che riflettono la nostra epoca, in tutte le sue contraddizioni e complessità. Come creativa indipendente e pensatrice analitica, il suo lavoro offre un’interpretazione profonda, indagatrice e intellettualmente fondata delle realtà mentali contemporanee.

Dal 2009, l’artista è anche attivamente coinvolta in progetti internazionali, performance e mostre in qualità di fondatrice e membro del <Collettivo Okin> (formato da Yi Joungmin, Kim Hwayong e Jin Shiu), un gruppo di artisti costituitosi per affrontare la questione dello sfratto di tutti i residenti del complesso abitativo Okin Apartment, nel Distretto di Jongno, destinato all’abbattimento. Il collettivo ha trovato attraverso video, performance e trasmissioni radiofoniche, un canale di interazione con il pubblico dentro e fuori la comunità, che ha permesso di rilevare le questioni sociali generatesi nelle città in via di riqualificazione. Un lavoro incentrato sulla relazione tra comunità e individui. Il gruppo ha cercato modi non convenzionali per affrontare le questioni sociali sollevatesi: hanno ad esempio organizzato, insieme ai residenti, una festa sul tetto di un condominio presentando con l’occasione proiezioni, esibizioni e concerti.    

Yi Joungmin è stata allo stesso tempo una figura di spicco nel gruppo, ma anche un’artista innovativa con una propria attività individuale. I dipinti di Yi Joungmin dell’ultimo decennio sono incentrati su un sistema metaforico di significati e riferimenti che risulta complesso, multi-leva e poeticamente suggestivo; la contestualizzazione di esperienze sociali reali e di prospettive alternative fittizie-immaginarie creano un amalgama di diversi livelli di realtà. Yi Joungmin si è ampiamente applicata sulle immagini del mondo organico, compresi temi come i processi biologici ispirati alla natura, le cellule vegetali o il cibo prodotto dalla società contemporanea, si vedano ad esempio gli splendidi gateaux, di forma quasi architettonica. Nei suoi dipinti, le monumentali e sofisticate torte sembrano in qualche modo irreali e instabili, nel rappresentare il processo di fusione sull’orlo del collasso in modo interattivo con la condizione umana. La sua narrativa trasmette le contraddizioni e le incertezze, i dubbi e le incredulità nel contesto del nostro contemporaneo sentire. L’attualità sociale e culturale è direttamente e indirettamente riflessa dalla sofisticata pittura di Yi Joungmin. Anche se negli ultimi anni è stata fondamentalmente attiva in Corea, il suo singolare approccio alla natura, al corpo umano, agli artefatti architettonici, artificiali – industriali, meccanici – e la fusione di questi due territori di riferimento le ha permesso di riscuotere grande riconoscimento e vivo interesse da parte di critici d’arte, teorici, esteti. Le fonti delle bizzarre narrazioni dei suoi dipinti e disegni testimoniano un profondo interesse letterario e socioculturale e un interesse ancora più rispettoso al simbolismo archetipico fortemente collettivo, che diviene il centro di processi di formazione visiva che sono fondamentalmente sensuali, trasparenti e chiaramente strutturati. La maturità pittorica consapevole, la sottile rivisitazione dell’equilibrio compositivo e strutturale dei vecchi maestri, la coerenza concettuale e una celata ma forte tendenza alla narrazione personale, segnalano l’evidente importanza e la tipicità paradigmatica dell’opera di Yi Joungmin nella prassi artistica coreana contemporanea.

Anche Youin Yi fa parte di quella generazione di artisti coreani di artisti coreani proiettati verso l’estero che, studiando in altri Paesi, hanno spesso l’occasione di essere allievi di eminenti professori. Questi giovani artisti sono parte attiva del mondo dell’arte internazionale e fanno capo ai centri d’arte di Europa, America e Asia. Youin Yi è stata allieva del pittore tedesco Günther Förg alla famosa Akademie der Bildenden Künste di Monaco; è stato lui ad introdurla alla prassi pittorica e al pensiero estetico di certa tradizione occidentale. Dopo i suoi studi, Youin Yi è rimasta in Germania, dove è divenuta presto parte della vivace e dinamica scena artistica nazionale. L’artista ha elaborato, nel suo percorso, una tessitura pittorica estremamente sofisticata, basata sull’intelligente e sottile commistione tra certa tradizione occidentale di esercizio della pittura, e un modo prettamente orientale di creare le immagini e il loro contorno pittorico intorno a motivi semplici ma ambigui. Tutti i dipinti, i disegni e le sculture di Youin Yi evocano uno sconosciuto e nascosto terreno di emozionanti avvenimenti immaginari e di oscuri processi di trasformazione permanente a cui sono soggette figure e forme esistenti o forse immaginarie, pensate o sognate; territori in cui strane e oscure trasfigurazioni offrono al racconto storie fiabesche. Nelle figure umane e animali che vivono in queste narrazioni, i motivi naturali appaiono e scompaiono o si trasformano in qualcos’altro; le incontrollabili associazioni suscitate portano lo spazio fittizio dell’immaginazione a suggerire oscure profondità. Paesaggi con cupe foreste e campi luminosi, colline e fiumi; animali e corpi umani connessi tra loro si compenetrano, gli uni negli altri, nel fluido sovrapporsi di possibili chiavi di lettura.

La luce e l’oscurità, nell’opera di Yi, sono pittoricamente interpretate come potenziali fonti di narrazioni che permettono di generare un’aura metamorfica di riferimenti. Ma nel frattempo, il particolare modo in cui tratta il colore, il drammatico confronto tra luci e ombre, tra superfici brillanti e oscure, permettono la comparsa, sulle sue tele, di uno spazio inaspettato, sfaccettato e immaginario, dove figura e sfondo, o interno ed esterno sono costantemente invertiti. Yi avrebbe affermato: “Le linee, in questo processo, diventano punti che, al posto di porre dei limiti, creano aperture”. In altre parole, la linea non è un elemento di divisione che separa le cose e le definisce per opposizione, ma un luogo specifico, una linea spessa di confine tra interno ed esterno, tra materiale e immateriale, tra realtà e sogno, in cui c’è spazio per il verificarsi di alcuni eventi. Sperimentare la profondità di questo territorio di confronto sembra essere una questione centrale nella pittura di Youjin Yi. L’artista continua tuttora ad esplorare i modi di utilizzare gli effetti di luce per plasmare spazi immaginari, e di creare, attraverso la gamma del colore, una profondità virtuale all’interno della struttura del dipinto, per mutuare ai motivi un carattere indefinito e mantenerli così in uno stato di oscurità instabile e indeterminato. Il sistema semantico stratificato del suo lavoro apre diverse interpretazioni di possibili narrazioni e offre un territorio ampio, quasi illimitato, di associazioni letterarie o connotazioni psicologiche, mentre porta avanti anche un discorso pittorico immanente basato sulla messa in discussione della competenza della struttura visiva di generare narrazioni. Youin Yi rafforza l’emozionalità e la coerenza poetica di quest’aura fittizia-immaginaria, e la sua pittura rivela così un certo Romanticismo nascosto, un approccio molto personale alla spiritualità. In questo senso, il suo universo pittorico potrebbe essere visto come un incontro tra la tradizione est-asiatica e la metodologia pittorica europea.

[1] Yoon Jin Sup, The World of the Dansaekhwa: Spirit, Tactility, and Performance, in:  The Art of Dansaekhwa Kukje Gallery, Seoul, 2014.

[2] Airyung Kim, Lee Kang-So, in Lee Kang-So: the river is moving. Exhibition catalogue, Artsonje Museum, Seoul, 2003.

[3] Philipp Dagin, Lee Kang-So’s Paradox, in: Lee Kang-So: the river is moving. Exhibition catalogue, Artsonje Museum, Seoul, 2003.

[4] Sung Wankyung, Rhythmic Chaos – The texture and breathing, in: Yoo Geun-Taek’s paintings. In: Yoo Geun-Taek: Skin of Life – Drawings on the Diagonal Lines that Sustain Me. Catalog, Dong San Bang Gallery, Seoul, 2007.